Autore: Melina Allegro
Quando penso alla scuola, non posso fare a meno di pensare alla vita, alla mia vita. Anzi la scuola è stata la costante della mia vita.
Ho percorso tutti i gradi della scuola e nei vari gradi ho cambiato anche tipi di scuole; inoltre oggi, mi ritrovo ad insegnare nella scuola primaria ormai da 28 anni, e domani…. Chissà!
Comunque, ora sono qui e guardo alle mie spalle cercando un filo sottile, la trama della mia vita. Forse non è di questo che debbo parlare, forse lo stile che sto usando non è consono a questa trattazione, forse dovrei essere più impersonale, usare uno stile più oggettivo, ma tutto ciò non è detto a caso, anche se dal caso molte delle nostre scelte vengono determinate.
Allora, veniamo all’oggetto di questo capitolo, veniamo alla definizione della funzione che noi attribuiamo alla scuola. La scuola come mezzo di formazione. Parlando di formazione bisogna stabilire chi e in che modo. Veniamo al chi: a questa domanda si potrebbe semplicemente rispondere “il soggetto che apprende”, ma ponendoci il problema del “come”, sorgono nuovi problemi che andiamo ad affrontare considerando la necessità della formazione come necessaria al bambino, come all’adulto, per la costruzione degli strumenti per la ricerca e la comprensione della molteplicità dei contesti della vita, intesa come libertà.
Qui occorre chiarire cos’è la molteplicità e quindi perché è qui intesa come libertà.
Per chiarire occorre fare una premessa; e, cioè, parlare della scuola come il luogo entro il quale il bambino prende contatto con la vita, quindi con se stesso e con gli altri. Prende contatto, perciò, con il molteplice, con i molteplici luoghi dell’essere, entra in un’officina dalla quale, in un’ottica di formazione continua, non ne uscirà mai più.
Il biologo tedesco Haeckel, alla fine del secolo scorso, elabora una tesi sullo studio dell’evoluzione dell’uomo. Per Haeckel l’evoluzione cosmica e quella organica, compresa quella umana, sono regolate dalla “legge biogenetica” secondo la quale lo sviluppo dell’individuo, o ontogenesi, ricapitola lo sviluppo della specie, o filogenesi.
Seguendo questa tesi il positivista inglese H. Spencer (1820-1903), nell’Educazione intellettuale, morale e fisica, giunge ad una prospettiva pedagogica intesa come autosvolgimento: se la successione delle conoscenze acquisite dal genere umano era stata trasmessa per via ereditaria, nello stesso ordine alle generazioni successive, allora l’educazione del bambino deve essere “in piccolo una ripetizione della civiltà”. A questo punto, di fronte all’opera che venne considerata una sorta di manifesto della pedagogia positivista, occorre chiederci a quale civiltà Spencer si riferiva. Se la civiltà che Spencer aveva in mente era quella che risolveva il problema della conoscenza come conoscenza scientifica, cioè in quanto superava le impressioni e le riflessioni soggettive, allora occorre restituire al soggetto la propria posizione, cioè il proprio ruolo di protagonista; non è pensabile una “oggettività” senza il soggetto.
Dunque, chi è il Soggetto di questa civiltà? E’ l’uomo, un uomo a metà strada tra Doctor Faust e Renzo. Entrambe queste figure vivono la loro storia di uomini; entrambe cercano delle risposte. L’uno, forse, – il Doctor Faust, intendo – è l’artefice della sua storia, una storia che vorrebbe essere una molteplice storia, come molteplici sono le possibilità che la vita ha in sé. Faust nella sua scelta, nel suo incontro con il diavolo, si libera, con un ultimo atto estremo della sua essenza, della sua soggettività, della sua capacità di scelta, della sua ragione, come se in questo atto, appunto, volesse contenere tutte le infinite scelte, disperdere quella sua unica soggettività implicata in tutte quelle infinite scelte, per elevare il proprio spirito al di sopra delle cose e dominarle.
Per il filosofo Hegel l’esistenza umana, finché non si eleva alla ragione, è inquietudine dello spirito. Ed è l’inquietudine di Faust che egli descrive:
“Faust vuole comprendere il fondamento delle cose, la segreta molla delle manifestazioni del mondo fisico e morale, vuole comprendere colui che a tutto ha dato un ordine.
Invano! Egli si agita sul palcoscenico della vita, dove vizi e virtù si intrecciano, dove il bene viene dal male e il male dal bene. Sempre più si confonde lo spirito. ( .…. ) Lo spirito deve lasciare tutto al suo corso esterno e, per contro, un buio profondo e un tenebroso silenzio avvolgono tutte le potenze che esso non scorge e che paiono solo deriderlo. Tutto è oscuro per lo spirito dell’uomo ed esso stesso è a se stesso un enigma.” (HEGEL, pp. 70-71)
Hegel vuole risolvere l’enigma; infatti, lo risolve nella consapevolezza che nulla al mondo vi è di enigmatico, tutto è come si manifesta. Non c’è alcun potere malefico che inganni l’uomo, e neppure un bene o una verità occulti che debbano essere faticosamente o dolorosamente scoperti al di là dell’apparenza e del male. Tutto è sostanza, tutto è essere vero, tutto è ragione. In ogni momento, quel mondo tanto oscuro a Faust, è un mondo pienamente chiaro a se stesso, il bene e la verità sono presenza costante. A condizione, però, che non ci si fermi nell’immediato, alla scelta singola, a condizione che venga mantenuto saldo e consapevole il rapporto che lega l’uno al tutto, la determinazione alla sostanza, la manifestazione all’essenza; la necessità alla libertà. In tale concezione, tuttavia, Hegel non ignora le lacerazioni dell’essere, non ignora l’eterno passare del tutto. In tale concezione Hegel eleva l’immediatezza alla ragione, rapporta il dato all’universale. E allora, proprio le scissioni, il divenire, la contingenza, appaiono garanzia della libertà dello spirito – quello stesso spirito di Faust avvolto dal “buio profondo” e dal “tenebroso silenzio” delle infinite possibilità celate. E tale garanzia è data proprio dalla loro natura, cioè come manifestarsi della ragione, che sempre toglie in sé i suoi momenti, per riconquistare, a un livello più alto, la propria unità, e per dare così alla sua libertà una effettualità più piena, più consapevole del proprio svolgersi nel mondo, nella storia.
L’altro, cioè Renzo, è un uomo semplice, è un uomo che non ha il problema delle infinite scelte, è un uomo che come unica scelta vuole sposarsi con Lucia: è questa l’unica storia che vorrebbe vivere, non cerca altro. Ma qui è la storia, anzi le infinite storie di altri uomini che si frappongono tra la sua unica scelta – la promessa – e la possibilità di realizzarla; e non servono l’ira, l’animosità con la quale Renzo quasi si ribella alle molteplici traversie, ai molteplici offrirsi della vita in ogni sua sfaccettatura: è la vita stessa che lo sovrasta, è tale molteplicità ad avere il sopravvento. Tuttavia, Renzo sembra vivere l’enigma che lo avvolge, l’enigma delle infinite vicende, del continuo succedersi degli eventi, con la stessa inquietudine di Faust; Renzo come Faust, suo malgrado, “si agita sul palcoscenico della vita, dove vizi e virtù si intrecciano, dove il
bene viene dal male e il male viene dal bene”. Anzi, Renzo non si agita, vi soggiorna. Attende gli eventi, certo. E mentre li attende, più che inquieto, sembra aver svelato il mistero che lo avvolge: non c’è alcun potere malefico che inganni l’uomo, e neppure un bene o una verità occulti che debbano essere faticosamente o dolorosamente scoperti al di là dell’apparenza del male. In ogni momento, il mondo è pienamente chiaro a se stesso, il bene e la verità sono presenza costante. E’ così che il mondo appare a Renzo: pura aderenza a se stesso.
L’Odissea di questi uomini, dunque, il loro incontrarsi e scontrarsi con le molteplici rotte che la vita offre loro, sembra essere un unico viaggio attraverso la loro stessa umanità – sia che elevata a spirito, sia come accettazione del mondo-, attraverso la loro stessa finitudine di uomini, come se, alla fine, è la conquista di un’umanità più grande quella che conta, un’umanità che ha conquistato se stessa con l’accettazione, questa volta, del valore supremo dei fatti, degli eventi così come essi si svolgono e così come loro, uomini, agiscono per determinarli.
Dunque i fatti, gli eventi, lo svolgersi del mondo, in altri termini il suo manifestarsi, divengono così i coprotagonisti della Storia, di Faust, di Renzo – di Goethe, di Manzoni -, e delle molteplici storie degli uomini, di tutti gli uomini.
L’intento era, dunque, quello di addentrarci nel molteplice; l’intento era quello di definire il molteplice, anzi, la molteplicità. Ma come? Parlando della libertà. In che termini affrontare, ora, il discorso sulla libertà? Nei termini della ricerca, di una ricerca costante e continua di contenuti, di valori, di mezzi. La ricerca nasce dall’esigenza di concretizzare i nostri concetti, dall’esigenza di esperire, di sperimentare il reale, il mondo così come ci si pone, ci si presenta innanzi, dapprima in modo confuso, vago quasi che io e il mondo rappresentino un tutto dal quale è difficile scindersi. Come superare la scissione? Per Hegel il superamento della scissione spetta alla ragione, anzi è il compito essenziale della ragione, né può esserci ragione se tale compito non venga adempiuto. Con ciò Hegel concorda con la tradizione, ma ne divide per quanto riguarda il modo di adempiere il superamento.
Per Hegel l’uno e il molteplice sono gli elementi di un tutto, di un processo circolare in cui un termine rappresenta la negazione dell’altro in quanto molteplice tolto, e non in quanto annullato; nell’unità dei due estremi sta la categoria dell’et-et, non dell’aut-aut, come presenza intrinseca all’essere stesso. Il modo sta nel riconoscimento della natura dialettica della realtà. Non è escludendo uno dei due termini del contrasto che si supera la scissione, ma pensando l’unità nella scissione, come totalità organica che si sviluppa. Dunque, il solo modo di superare la scissione è accettarla come realtà, insieme logica e ontologica, propria del pensiero e dell’essere. Non deve esserci differenza tra pensiero e realtà: il pensiero deve essere autoriflessione del mondo. Qual è, allora, il punto di contatto tra pensiero e realtà, il punto di congiunzione? Il limite. Nel concetto di limite è contenuto quello di libertà, non come universale potenzialità del volere, non come possibilità indeterminata, ma come possibilità determinata, perciò limitata. Il limite rappresenta, perciò, la sfera reale della libertà, quindi non è un che di meno, rispetto alla libertà potenziale delle scelte, ma un qualcosa di più, perché la rende reale, possibile.
Perciò il limite alla volontà illimitata dell’uomo è l’altro, è l’altrui volontà; quindi, essere liberi significa accettare l’altro come limite, cioè come mezzo di realizzazione di una determinata possibilità.
La libertà allora non è insita nell’essere, nell’uomo, ma è un processo, è lo svolgimento della ragione che concepisce sé come altro da sé, e l’altro come parte, e la forza propulsiva di tale processo è il negativo (momento della dialettica) come forza reale, come principio immanente nelle determinazioni e in ciò è potenzialità del mutamento, è il divenire come struttura del mondo. E’ unità potenziale in quanto limite, cioè negazione di qualcosa, determinata, con un contenuto proprio, Il negativo è esso stesso un positivo, la contraddizione supera se stessa, si toglie come tale, l’io e l’altro si identificano come persone, essere e pensiero raggiungono un’assoluta identità; identità dell’essere come soggetto. Un soggetto, una persona, un libero: tale è l’esito dello svolgimento dell’individuo come essere nel mondo, come unità dei molteplici. L’uomo da piccolo è diventato grande. Da un tutto indistinto tra io e il mondo si è scisso per poi ricongiungervisi nuovamente come essere cosciente di sé e del mondo, come uno in comunicazione e in rapporto col tutto, come ragione.
Giovanni Gentile ha detto che il bambino non è stato amato abbastanza dall’adulto, “perché (questi) l’ha visto piccolo innanzi a sé, e tanto diverso! Incapace dapprima perfino di reggersi sulle gambe e levarsi in piedi ed alzare la fronte com’è proprio dell’uomo, che guarda innanzi a sé perché è diventato consapevole di se stesso, e si misura col mondo che lo circonda, e in cui gli tocca di affermarsi e di vivere. Lo ha visto inetto da principio ad esprimere il suo pensiero e privo di questa caratteristica che è la prerogativa dell’uomo tra tutti i viventi, il linguaggio; e destituito di quella riflessione onde l’uomo vigila sull’interno dei suoi moti, ragiona e proporziona quindi nella pratica i suoi fini ai mezzi di cui dispone, non desidera l’impossibile, non si espone a rischi inutili; controlla corregge e indirizza con maggior e minor cautela e circospezione il proprio volere. Lo ha visto insomma inferiore a sé perché privo di quell’attributo ond’egli si distingue come uomo dal resto degli esseri tutti: l’attributo della libertà. Privo di tale attributo, quantunque suscettibile di venirne una volta in possesso. Donde la necessità dell’educazione” (G. GENTILE, pp. 34-35)
Nel luogo entro il quale l’educazione si svolge – la scuola -, il bambino conosce il mondo con gli strumenti della ragione. Una ragione, la sua, in evoluzione, in crescita. Gli strumenti della ragione, del pensiero divengono quindi gli strumenti del comunicare, del linguaggio, anzi della molteplicità dei linguaggi di cui il pensiero si serve.
La scuola, allora, come fa ad educare il bambino a comunicare con se stesso e con il mondo? Ponendosi e rivolgendosi al bambino, anch’essa, come linguaggio, come mezzo per accedere a tutti i linguaggi, come finestra aperta a tutte le possibili finestre. La conoscenza del bambino, nella sua evoluzione passa attraverso delle fasi che i neuropsicologi dell’età evolutiva individuano negli aspetti neurologici, psicologici, sociali, motori, affettivi; fasi in cui il bambino sperimenta, costruisce, elabora degli schemi mentali, delle immagini mentali a cui fa riferimento di volta in volta sperimentando, costruendo, elaborando di nuovo, inglobando, quindi, la nuova esperienza alle altre, non come somma di esperienze, ma come inclusione organica con il tutto.
Lo sviluppo, allora, fisico, psichico, sociale, affettivo divengono un unico sviluppo in cui tutti gli aspetti progrediscono parallelamente in modo univoco. Il bambino fa esperienza di sé e del mondo attraverso la percezione sensoriale, la manipolazione, l’osservazione di ciò che lo circonda; la sensazione diviene lo strumento dell’esperienza così come, in seguito, quando avrà conquistato la capacità di astrazione, l’immagine diverrà lo strumento del pensiero. Quando parlo d’immagine non mi riferisco solo al dato visivo, ma a tutto ciò che rievoca nel bambino
un’esperienza, una sensazione interiore. Probabilmente l’immagine visiva è più immediata, mette subito in contatto il dato con il pensiero, l’emittente con il ricevente.
Oggi viviamo nella società dell’immagine e il dibattito sugli effetti più o meno positivi che l’immagine, mediata dalla televisione e dalla tecnologia ha sui bambini è quanto mai acceso. Il dato certo è la natura stessa dell’immagine come immediata emittente di luci, colori, forme, cose: pezzi di mondo, di quel mondo che il bambino vuole conoscere, sperimentare, vedere.
E se, certo, l’immagine non può essere l’unico veicolo dell’esperienza, sicuramente è un buon veicolo di apertura, di ramificazione delle sensazioni nella costruzione delle idee. L’interazione stessa con l’immagine nel linguaggio digitale, fornisce strumenti di ciò che va a sviluppare l’apprendimento percettivo-motorio, che basandosi sulla simulazione ripetuta della realtà, si basa su un apprendimento per tentativi ed errori.
Allora la scuola, come mezzo per accedere a tutti i linguaggi, deve educare il bambino alla costruzione degli stessi linguaggi, alla penetrazione dei linguaggi, dei codici per fare sì che questo si appropri dei codici stessi e divenga capace di costruirne anch’esso di nuovi, nuove forme di comunicazione che lo mettano in continuo contatto con se stesso e col molteplice.
Per fare ciò, la scuola deve partire dal dato, dalla concretezza della comunicazione stessa, che non può se non svolgersi nella vita: dalla realtà del bambino stesso, come portatore di una propria soggettività in divenire, alla realtà, varia e molteplice, di cui il mondo è composto.
Nella ricostruzione della varietà e della molteplicità del mondo, è alla storia che la scuola deve rivolgersi, come metodologia di indagine del sé del bambino e del sé dell’umanità, come svolgimento unitario del cammino dell’uomo nella storia, come conquista di una sempre maggiore consapevolezza del proprio ruolo nella storia, nella propria storia di uomini, come liberi del mondo. Un mondo che è insieme luoghi infiniti, tempi infiniti, in cui l’uomo-bambino è libero di proiettarsi alla ricerca del proprio mondo, della propria Itaca. E questo è il mondo dell’immaginazione, dove tutto è possibile, anche scegliere una via possibile, non come unica via, ma come una tra le altre e dove poter sperimentare le molteplici possibilità di accedere nella realtà, nella vita come essere libero di esprimere, con gli infiniti linguaggi del pensiero, la propria essenza di uomo, come portatrice di un’umanità sempre più ricca e completa.
E se “dalla magia rinascimentale d’origine neoplatonica parte l’idea dell’immaginazione come comunicazione con l’anima del mondo, idea che poi sarà del Romanticismo e del Surrealismo”
(I. CALVINO, pag. 98), a questa idea la scuola deve tornare per mettere in contatto l’anima del mondo con l’anima del bambino.
Dunque, la scuola si pone come veicolo per la costruzione dei mezzi per ricercare e comprendere l’anima del mondo, nella vita, nella storia, in se stesso, come sintesi dello svolgersi della civiltà proiettata nel futuro.
Educare il bambino allora significa educarlo alla libertà, alla libertà del pensiero d’immaginare, di inventare le cose come vere o come possibili.
Ernest Hemingway diceva:
Il mestiere degli scrittori consiste nell’immaginare o nel dire grandi bugie
E Gregorio Sansa risponde: Il mestiere del vero scrittore consiste nel dire la verità…. O nell’immaginarla Certo… certius!
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